Giuseppe Tricoli, seguace del neo-idealismo di Giovanni Gentile, permeato profondamente dal senso dello Stato di hegeliana memoria, intese la storia soprattutto come storia dell’Uomo e dell’Ideologia.
“Studiando la storia scrutava l’uomo”, disse del suo maestro Virgilio Titone e tale concetto si applicava benissimo al suo sentire storico.
Il suo senso della storia fu quindi profondamente antimaterialista: non gli eventi alla base del divenire storico, bensì l’uomo con il suo pensiero e le sue conseguenti azioni.
Pur non essendo l’obiettività la caratteristica dello storico, soprattutto di uno storico politicamente impegnato come lui era, si sforzò sempre di cercare la verità nuda scaturente dai documenti.
Appunto da un puntiglioso studio documentale degli archivi spagnoli iniziò la sua opera di storico che non ometteva tuttavia, nella critica, ad esprimere i suoi giudizi e i suoi intendimenti personali, innalzando sempre, a differenza di molti storici contemporanei, una netta barriera tra giudizio storico e giudizio politico. Perciò si sforzò di spazzar via con prove documentali certi pregiudizi storici dovuti al trionfo della storiografia di sinistra, asservita ad attività di propaganda politica. Una vittima della recente storiografia post-bellica, che egli volle in tutti i modi riabilitare, fu Francesco Crispi .
La storiografia dell’Italia repubblicana volle quasi vendicarsi di lui che era stato lo statista prediletto dalla storiografia fascista, da Volpe, per esempio, che aveva visto in lui il prototipo dell’Uomo Nuovo per la nuova Italia.
Perciò, dello statista siciliano vennero messi in evidenza, nel periodo repubblicano, solo i difetti: la passionalità, l’irruenza, la megalomania, la sospettosità, la politica anacronistica, il protonazionalismo, trascurando la sua importantissima opera di riformatore, essenziale per il passaggio ad una concezione di stato più moderna.. La stessa cosa Tricoli volle fare con altre vittime illustri della storiografia marxista come Mori, Cucco e Volpe; su quest’ultimo, proprio l’estate scorsa, aveva scritto una serie di saggi sul “Secolo d’Italia”. La sua massima aspirazione fu, tuttavia, quella di rivedere l’opera e la figura di Mussolini, libera dagli schemi conformistici in cui, prima di De Felice, era stata immobilizzata. In Mussolini a Palermo nel 1924, aveva voluto dimostrare come il duce fosse stato il primo presidente del consiglio italiano ad occuparsi realmente della questione meridionale, non solo attuando dei veri sopralluoghi che gli consentissero di avere una visione d’insieme del problema, scevra da pregiudizi, ma soprattutto elevando, per la prima volta dall’Unità d’Italia, la questione meridionale a questione non riguardante solo una parte del Paese, ma a problema nazionale. A giudizio di uno storico di sinistra, come il Renda, Mussolini fu il primo ad occuparsi seriamente della piaga della mafia, subordinando alla soluzione di tal problema il decollo economico della Sicilia. Con una poderosa opera di lavori pubblici – più della metà della spesa statale in tal settore fu investita nel Sud e nelle Isole – con una sapiente opera di bonifica e con, la cosiddetta battaglia del grano, mirò ad un effettivo sviluppo economico di quelle terre, fino ad allora abbandonate, e a valorizzare la vera vocazione agricola del Sud.
Sul fascismo e su un giudizio storico su di esso completamente revisionista era fondata la sua ultima fatica pubblicata postuma. Quest’opera era diventata per lui un compendio del suo sapere storico e quasi un testamento spirituale. E’ diventata, dopo la sua prematura morte, soprattutto un monumento alla sua incredibile cultura e un atto di fede alla verità storica, finora quasi sempre calpestata capziosamente. Tricoli si occupò specialmente della formazione del pensiero politico mussoliniano negli anni giovanili, argomento questo, poco approfondito da De Felice.
Con un formidabile excursus sul panorama culturale e ideologico dei primi anni del’900, lo storico palermitano riesce a ricostruire le varie tappe del divenire politico mussoliniano, un divenire che, in ossequio alla prevalenza in lui dell’azione sulla teoria, lo avrebbe portato a trasformare il suo pensiero politico, sulla scia del divenire storico, per presentarsi come l’homo novus in grado di far sortire l’Italietta giolittiana dalla palude della mediocrità, innalzarla a nuove glorie e modificare il sentire degli italiani,facendo finalmente di essi un popolo vero.
Suggestiva è l’interpretazione che egli dà del passaggio di Mussolini dal neutralismo all’interventismo, dalla classe alla nazione, dal marxismo al fascismo. Lungi dall’essere dei voltafaccia, furono manovre necessarie per rinnovare, in quel particolare contesto politico, l’Italia.